SANTA TERESA BENEDETTA DELLA CROCE
EDITH STEIN

In questo tempo d’Avvento, vorremmo lasciarci interrogare dalla figura di Santa Teresa Benedetta della Croce, al secolo Edith Stein, nata in una famiglia ebrea, filosofa atea poi convertitasi al cristianesimo, suora carmelitana, divenuta martire nel campo di concentramento di Auschwitz, e che sarà la protettrice della nostra futura Comunità Pastorale. In queste domeniche proporremo una sorta di “storia a puntate” della sua vita, per conoscere meglio questa Santa e nostra futura patrona.

Venerdì, Novembre 13, 2020 Edith Stein

edith stein 2Edith Stein nasce a Breslavia (allora in Germania, ora in Polonia) nel 1891 undicesima e ultima figlia, in una famiglia di stretta osservanza ebraica. A 2 anni rimane orfana di padre, e la madre, donna forte e animata da una profonda religiosità, prende in mano le redini della numerosa famiglia. Fin da piccola, Edith si dimostra una bambina dotata di grande intelligenza. Il suo percorso di vita è fatto però di interrogativi, di incertezze, di domande. Verso i 15 anni decide di abbandonare la fede ebraica perché non le riesce di creder in Dio diventando completamente atea. Inizia così la sua ricerca della verità, (intesa come sviluppo della conoscenza) e verso la difesa della dignità della donna.

 

Nel 1910 (19 anni), dopo aver concluso brillantemente gli studi liceali, si iscrive – unica donna in quell’anno – all’Università di Breslavia, alla facoltà di storia e psicologia del pensiero: attraverso lo studio della psicologia e della filosofia ricerca la verità. Edith ha un ruolo molto attivo nella vita sociale del suo tempo, impegnandosi in particolare per la difesa della parità delle donne, per il loro diritto di voto, e per la loro partecipazione alla vita sociale e politica. Questo sarà un argomento si cui torneremo anche più avanti perché Edith, dopo la sua conversione, saprà sviluppare una visione alta del ruolo della donna nella storia, nella società e nella Chiesa, arrivando ad elaborare una vera e propria “teologia della donna”.


Nel 1913 (22 anni) Edith si trasferisce all’Università di Gottinga, vera città universitaria, dove fa un incontro determinante, quello con il filosofo Edmund Husserl, fondatore della fenomenologia, il cui celebre principio è che, per scoprire la verità, occorre aderire alla realtà, ai fenomeni, così come si presentano. Edith non può allora non lasciarsi interrogare da alcuni “fenomeni” che si manifestano negli eventi della sua vita.

Nell’agosto 1914, allo scoppio della prima guerra mondiale, presta il proprio servizio come crocerossina volontaria, entrando in contatto col mistero della sofferenza e della morte. In quegli anni, poi, stringe amicizia con Max Scheler e con Adolf Reinach, due filosofi convertiti, l’uno al cattolicesimo, e l’altro al protestantesimo, e comincia a conoscere un mondo fino ad allora sconosciuto per lei, che la spinge a cercare oltre. Il suo primo incontro conCristo non avviene quindi attraverso le letture o lo studio, ma attraverso il contatto con le persone che portano nella loro vita l’amore per Gesù, e che, inconsapevolmente, diventano per lei pagine viventi del Vangelo. Per Edith è un’esperienza determinante quella di scoprire che la fede in Gesù crea vincoli di amicizia vera tra le persone e dona una capacità profonda di amare.
C’è poi un episodio che la segna profondamente. Durante una sua visita - per motivi esclusivamente artistici – in una chiesa, vede entrare una donna col cesto della spesa a pregare, e ne rimane profondamente colpita, come racconterà lei stessa: “La cosa mi parve strana. Nelle sinagoghe e nelle chiese protestanti che avevo visitato si entrava soltanto per le funzioni religiose. Nel vedere invece che qui la gente entrava tra un’occupazione e l’altra, come per andare a un colloquio confidenziale, rimasi colpita a tal punto che non mi riuscì più di dimenticare quella scena”. Ecco la prima scoperta di un Dio che si fa vicino all’uomo, nella quotidianità dell’esistenza. Non un Dio lontano, ma un Dio vicino all’uomo, che cammina con lui ogni giorno.

Nel 1916 (25 anni) Edith discute la tesi di dottorato laureandosi con il massimo della lode, sul tema dell’empatia, intesa come un cogliere l’esperienza emotiva e cognitiva con l’individuo con cui si entra in contatto, per sentire dentro se stessi la verità dell’altro. Di lì a poco diventa stimata assistente del suo maestro Husserl. Ma Edith non è soddisfatta. Husserl è molto esigente e la riempie di lavoro, richiedendo una dedizione quasi completa a lui. Sono anni segnati dalle sofferenze della guerra, dalla distruzione e dalla morte che bussa anche alla porta di Edith, quando Adolf Reinach, suo amico filosofo, muore in guerra. Lui e la moglie Anna, entrambi ebrei e grandi amici di Edith, si erano convertiti da poco al protestantesimo. La giovane vedova chiede ad Edith di aiutarla a sistemare gli scritti filosofici del marito, ma Edith prova un estremo disagio nel dover andare in quella casa amica, convinta che l’avrebbe trovata piena di disperazione, sprofondata nell’ombra della morte. E invece scopre in quella sua amica divenuta vedova, la serenità e la pace che, anche nella sofferenza, arrivano dalla fede. Ammira la grande fede di quella donna, che dice: “Una volta entrati nella comunione con Cristo, ci condurrà Lui dove vuole!”. Quello è per lei uno degli eventi che le cambia la vita, come lei stessa racconta: “Fu quello il mio primo incontro con la croce. La mia prima esperienza della forza divina che la Croce dà a coloro che la abbracciano. Per la prima volta contemplai in tutta la sua luce la Chiesa nata dalla passione di Cristo e vittoriosa sulla morte. In quel momento andò in frantumi la mia incredulità, e si levò nel mio cuore la luce di Cristo: Cristo nel mistero della sua croce”. Inizia così per Edith un lungo travaglio interiore, per poter accettare e accogliere nella sua vita l’esistenza di Dio che è Amore e che, nel donarsi per amore sulla croce, si rivela vicino in modo unico a ogni persona.

Sabato, Novembre 21, 2020 Edith Stein

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Dal 1917 al 1921 (26-29 anni), Edith attraversa un periodo difficile, di crisi e di travaglio interiore, e deve affrontare anche alcuni problemi di salute. Pur sentendo il bisogno di Dio, non riesce ad abbandonarsi a Lui e al suoAmore. Nell’estate del 1921 è ospite per le vacanze presso una coppia di amici filosofi, convertiti al protestantesimo. Una sera i due sposi si assentano e lasciano la loro biblioteca a disposizione di Edith. Per caso, tra le sue mani capita l’autobiografia di Santa Teresa d’Avila, grande Santa e dottore della Chiesa che insieme a San Giovanni della Croce riformarono l’ordine Carmelitano. Legge in una sola notte tutta l’autobiografia e, alla fine, confessa a se stessa: “Questa è la Verità!”. Ecco dove l’hanno portata la sua lunga ricerca e le sue tante domande: a scoprire che la Verità non è un ragionamento, ma è l’incontro con Cristo Crocifisso e Risorto, che ama ciascuno di un amore talmente smisurato da donare la sua vita sulla croce, per ogni uomo e per ogni donna, affinché ognuno possa a sua volta essere dono per gli altri. Edith comprende che questo incontro non avviene “in astratto”, ma nel vissuto di Gesù che si unisce al nostro vissuto, come è avvenuto per tutti quei suoi amici convertiti al cristianesimo, che per Edith, sono stati i primi testimoni della Verità. Così, nella preghiera che diventa vita vissuta e nel vivere la propria umanità guardando a Cristo (come avviene nell’esperienza di Santa Teresa di Gesù) Edith scopre un’umanità trasfigurata dall’incontro con Colui che è Via, Verità e Vita, e decide che, d’ora in avanti, quella sarà anche la sua vita. E sceglie di farlo nel cattolicesimo, amando la Chiesa nata dalla passione di Cristo, passione che si rinnova in ogni Santa Messa nel sacrificio dell’Eucaristia.
La ricerca della Verità non è qualcosa che riguarda solo i santi, o i filosofi, ma entra nella vita di ciascuno di noi: “Che cosa è “vero” nella mia vita? Chi è per me la Verità? Che senso ha la mia vita?”. Siamo chiamati a non nascondere le nostre domande, ma a cercare sempre una risposta attraverso la Parola di Vita, e attraverso anche il vissuto dei Santi che ci aiutano a scoprire come vivere concretamente la parola così che la nostra umanità sia piena, profonda, consapevole.

Dopo la conversione, Edith comprende che è solo nel Battesimo che potrà incontrare la Verità che finalmente ha trovato, attingendo alla Sorgente dell’Amore con cui desidera riempire d’ora in avanti la sua vita. Assiste allora alla sua prima Santa Messa e, al termine, va dal sacerdote in sacrestia a chiedergli di poter ricevere il Battesimo e lui, interrogandola, scopre che non vi è nessuna verità della fede su cui non sia istruita (ha infatti studiato d sé tutta la dottrina cattolica). Edith viene battezzata nel capodanno del 1922 (30 anni) e aggiunge al suo nome quello di “Teresa”. Lo stesso giorno riceve anche la prima Comunione. Edith si sente attratta dalla vita monastica, e vorrebbe entrare subito nel monastero carmelitano di Colonia, ma non vuole dare un altro dolore alla madre, già profondamente colpita dalla conversione, che non comprende, della sua figlia amata. Inoltre, il suo direttore spirituale la invita a non ritirarsi in convento, e a continuare a svolgere attività di insegnamento e di ricerca, offrendo anche in quel campo la sua testimonianza. Ma la sua vita, rispetto a prima, è completamente cambiata. Sebbene sia sempre molto occupata, riserva un posto centrale alla preghiera, e nei suoi scritti ricorda l’importanza di dedicare al mattino, no-nostante le tante cose da fare, un momento alla preghiera e al raccoglimento, così da avere la forza per affrontare la giornata e dilatare il cuore ad accogliere la vita che Gesù desidera donarci, per riuscire ad accogliere gli altri. Capisce la necessità di “vivere eucaristicamente”, uscendo dalla limitazione della pro-pria vita per trapiantarsi nell’immensità della vita di Cristo: ecco la Verità del proprio vissuto quotidiano che si unisce al vissuto di Cristo per esserne trasfigurato.

(continua)

Sabato, Novembre 28, 2020 Edith Stein

Continuiamo la “storia a puntate” della vita di Santa Teresa Benedetta della Croce (Edith Stein): oggi vorremmo raccontare Edith come donna, insegnante, educatrice, filosofa appassionata e desiderosa di far incontrare a ognuno la Verità che è Cristo.


VITA DI EDITH STEIN, 3a PARTE: LA PASSIONE PER LA VERITÀ (1922-1933) - assistente di E. Husserl all’Università di Friburgo -

Dal 1922 al 1933 (31-42 anni) Edith si dedica con passione all’insegnamento, allo studio, all’attività filosofi- ca, cercando di essere, nel suo impegno quotidiano, uno “strumento di Dio”, come scrive lei stessa: “Se una persona viene da me, vorrei condurla da Lui”.

Insegna tedesco presso la Scuola Magistrale e il Liceo delle Domenicane a Speyer (città nel Sud Ovest della Germania), dove studiano ragazze che diventeranno poi insegnanti. Ma la formazione, come è intesa da Edith, va ben al di là di una semplice materia da far apprendere. Con la sua sensibilità, la sua dedizione, e la sua serenità, instaura relazioni profonde con le sue alunne, che vedono in lei un esempio vivente, capace di nutrire la loro anima più di tante parole. La sua grande forza di volontà, che la fa essere esigente verso se stessa e verso di loro, le sprona a dare il meglio, in una crescita armonica della persona. È come se l’anima di Edith, formata dalla Parola di Dio e dall’Eucaristia, continuasse, in ogni momento, ad educare come educa la Scrittura cioè ad essere dono come il Corpo di Cristo, per formare delle persone autentiche, chiamate a riscoprire l’originaria vocazione umana: essere immagine di Dio, essere sempre più simili a Cristo. E così si vede la realtà e gli altri con il suo Sguardo, nella quotidianità si ama con il suo Cuore, e si seminano ogni giorno segni di Bellezza. Edith, in quegli anni, si dedica poi in modo appassionato all’opera filosofica di San Tommaso, traducendo e commentando uno dei suoi trattati fondamentali, il “De veritate” (Sulla verità)

Dal 1928 al 1933 tiene numerose conferenze in patria e all’estero, soprattutto sul tema della donna. La sua accurata riflessione non è astratta o puramente intellettuale, ma sempre relativa all’aspetto educativo e formativo che le sta a cuore. Unisce così il suo bagaglio di conoscenze filosofiche alla sua esperien- za di insegnante e alla sua attenzione per i temi sociali e politici. La sua fede in Cristo permea ogni sua riflessione, come dice lei stessa: “In fondo, ciò che devo dire è sempre una piccola, semplice verità: come imparare a vivere con la mano nella mano del Signore”.

Edith - che aveva subito una dolorosa discriminazione, non avendo potuto intraprendere la carriera uni- versitaria a quel tempo inaccessibile ad una donna - tuttavia non si concentra sulla questione della parità tra uomo e donna, o sull’emancipazione femminile. Va oltre un orizzonte puramente individualistico e preoccupato di rivendicare dei diritti, e offre una nuova e originale prospettiva per quel tempo (anche all’interno della Chiesa). Aiuta cioè a riscoprire la bellezza di vivere sempre più la complementarietà tra uomo e donna; porta alla luce il valore della femminilità, che intrinsecamente ha in sé il dono della maternità, fisica e spirituale. In questo modo la donna si rivela capace di custodire la vera umanità, di difenderla e di condurla al suo pieno sviluppo. È la fecondità della donna che, nella sua capacità affettiva, vivendo l’empatia, assume su di sé il vissuto dell’altro. Così offre il proprio contributo in ogni ambito della vita: nella famiglia, nell’istruzione, nel lavoro professionale, nella società, nella Chiesa. Un contributo di riflessione e di prassi.

Edith guarda a Maria come il modello di donna, il prototipo della perfetta femminilità. E così, dice Edith, “nella sua vocazione soprannaturale, la donna è scelta a personificare, nello sviluppo più alto e più puro della sua essenza, l’essenza stessa della Chiesa, ad essere il suo simbolo. Questa “teologia della donna”, elaborata in modo straordinario, anticiperà il cammino anche della Chiesa verso una maggiore consapevolezza del ruolo della donna, e sarà ampiamente ripresa nell’enciclica “Mulieris dignitatem” di papa San Giovanni Paolo II (agosto 1988), dando l’imprimatur della Chiesa a ciò che Edith – più di cinquant’anni prima – con lasuapassionedidonna,avevasaputocogliereetestimoniare. 

(continua)

Sabato, Dicembre 05, 2020 Edith Stein

L’esperienza filosofica e religiosa di Edith Stein è fortemente intrecciata con la fenomenologia. Abbiamo anche intuito come questa impostazione metodologica sia stata trasmessa alla Stein dal suo “Maestro”, vale a dire Edmund Husserl (1859-1938). La sua stessa tesi di laurea, che ebbe come relatore proprio il filosofo ebreo e che porta il titolo de Il problema dell’empatia (1916-1917), sembra essere un inno alla fenomenologia. Bene, ma cosa effettivamente è la fenomenologia? È importante chiarire un aspetto decisivo: la fenomenologia non è una filosofia, piuttosto essa è il metodo alla base della filosofia e, come vedremo, non solo. La radice della fenomenologia è posta nella parola fenomeno. Quindi per capire su cosa si fonda il metodo fenomenologico dobbiamo prima comprendere che cosa sia un fenomeno. Detto semplicemente, il fenomeno è inteso come ciò che è reso manifesto, come ciò che risulta talmente evidente da non poter essere negato, potremmo dire essere ciò che funge da fondamento per la ricerca della verità. Il punto di partenza della fenomenologia di Husserl è esattamente questo: teorizzare un metodo – quello fenomenologico per l’appunto – che possa rendere manifesto alla coscienza dell’uomo ciò che appare come fenomeno.

La felice espressione che Husserl utilizza per descrivere questo atteggiamento può essere tradotta e riassunta col motto: andiamo a vedere come stanno le cose. Facile? Forse, ma quel vedere indica un oltrepassare il manifestarsi primo delle cose - che può essere apparenza superficiale - per dirigersi verso le intime caverne dell’umano, là dove dimora la consapevolezza del mondo. In questo senso, è bello riferirsi alla espressione che utilizza la filosofa italiana Sofia Vanni Rovighi, quando scrive: «Ora parrebbe che il guardare, il riferire ciò che si manifesta originariamente, fosse la cosa più facile del mondo, ma non è detto che ciò che è più manifesto, che è a fondamento di ogni conoscenza, sia ciò di cui siamo abitualmente più consapevoli». Questa visione di fondo, portò Husserl ad intendere la fenomenologia come epoché (lemma già utilizzato dagli antichi filosofi scettici per indicare la sospensione di giudizio), ovvero una messa fra parentesi di tutti i pregiudizi della vita che potrebbero fungere da premesse filosofiche indebite, trasformando la stessa filosofia in una costruzione arbitraria e fantasiosa, anziché in una disciplina rigorosa alla ricerca della verità. In questo senso, la «riduzione fenomenologica», o epoché, funge da dubbio metodico, ovvero dal dubitare di tutto per conoscere ciò che risulta indubitabile, e quindi necessario per qualsiasi conoscenza.

All’interno di questa logica, la Stein è certamente prosecutrice dell’eredità husserliana. Lei, ed altri filosofi decisivi nella storia del pensiero contemporaneo, partendo dalla lezione del “Maestro”, svilupperanno il tema della fenomenologia in vario modo, giungendo talvolta anche ad esiti differenti. Per Edith Stein in particolare, la fenomenologia si configura come «la chiarificazione e con ciò l’ultima fondazione di ogni conoscenza». Risulta particolarmente interessante questo dato: la fenomenologia non è intesa dalla Stein unicamente come la base metodologica della filosofia, al contrario, essa è la base di ogni scienza e, con ciò, di ogni conoscenza. Lo statuto costitutivo della fenomenologia individua la stessa non come un sapere, ma come una metodologia; in questo senso, essa non ha un campo d’attuazione delimitato e specifico ma, piuttosto, esteso e vario. Ciò è testimoniato da diverse discipline che, seguendo certe correnti sviluppatesi al loro interno, adottano la fenomenologia come metodo d’indagine, si pensi come esempio oltre alla filosofia, alla psicologia e alla pedagogia.

Quanto possiamo dire che abbia influito la fenomenologia nelle dinamiche esistenziali e di fede della Stein? Il compito della filosofia termina là dove si pone questa domanda (dato che la fede non è deducibile né da una filosofia, né da un metodo); ma un dato certo, che potrebbe aiutare a ritracciare i lineamenti di una possibile risposta, si può cercare di descriverlo. Senza addentrarci in linguaggi specialistici, possiamo affermare che per la Stein l’indagine fenomenologica sull’empatia può portare anche a Dio. In questa direzione, l’uomo, attraverso l’empatia – che secondo la Stein si configura come la possibilità di conoscere l’altro - può conoscere il vissuto di Dio; Dio, allo stesso modo, può conoscere la vita dell’uomo, ma senza che l’uno si confonda nell’altro. Infatti, per cogliere l’altro è necessario non essere l’altro, rimanere cioè sé stessi e con sé stessi. La dinamica dell’Io e del Tu, quella di un incontro che non è mai riducibile alla propria esperienza ma che riesce a “spalancare” le porte verso la ricerca appassionata e la conoscenza (sempre limitata) della verità del mondo e dell’Altro, sembra essere, in sintesi, ciò che permise a Edith Stein di aprirsi a Dio e di fidarsi di Lui in quanto Verità del mondo.

(continua)

Sabato, Dicembre 12, 2020 Edith Stein

Dopo aver insegnato per dieci anni nel Liceo e Scuola Magistrale delle Domenicane a Speyer, nel 1932 (41 anni) Edith Stein diventa professoressa all’Istituto Superiore di Pedagogia Scientifica a Monaco. Ma il suo incarico di docente viene bruscamente interrotto nel febbraio 1933 a causa dei provvedimenti antisemiti del Terzo Reich: Hitler, salito al potere come cancelliere, impone l’allontanamento degli ebrei da ogni pubblico impiego. La Storia, col volto brutale dell’odio razziale, entra in modo violento nella vita di Edith che, essendo di origini ebraiche, non può più proseguire con l’insegnamento. Riceve un’offerta di lavoro dal Sud America, ma declina la proposta. Edith comprende che ormai nulla più la trattiene dal realizzare il suo grande desiderio: quello di diventare suora carmelitana. La prova più grande per lei è dirlo a sua madre, che aveva già tanto sofferto per la conversione al cristianesimo della sua figlia amata. Il saluto tra le due donne prima dell’entrata al Carmelo è straziante. Ma Edith sente che la sua strada ora è quella: Dio la sta chiamando a donare la sua vita a Lui in modo completo, per sempre.

Ci chiediamo perché Edith decida di entrare proprio nell’ordine carmelitano, la cui spiritualità contemplativa trova il suo fondamento biblico nelle parole del profeta Elia: “Vive il Signore alla cui Presenza io sempre sto” (1Re 18,1). Ossia, la contemplazione intesa come “restare sempre alla Presenza del Signore”, avendo come modello Maria, tempio e dimora di Dio. Nella conversione di Edith, ha un ruolo determinante la figura di Santa Teresa di Gesù che, insieme a San Giovanni della Croce, alla fine del 1500, aveva attuato una profonda riforma dell’ordine carmelitano. Prima di loro, si credeva che pregare – nella contemplazione – volesse dire raggiungere un livello alto, astraendo dal mondo, come per raggiungere un’altra dimensione, staccata dalla realtà. Invece, Teresa di Gesù insegna alle sue monache che contemplare significa incontrare lo sguardo di Cristo, per portare il Suo Sguardo. La preghiera diventa così un incontro di sguardi, che alimenta la vita. È riconoscere che Dio va messo non al “primo” posto, ma all’”unico” posto, rinunciando ad ogni attaccamento, ad ogni altro amore, per ricevere tutto nuovamente dalle sue mani, per amare tutto e tutti in Lui: “Attirami a Te, e noi correremo” (Ct 1,4). È lo sguardo di Dio che cambia la vita, alla scoperta dell’”umano autentico”, quello pienamente docile alla Sua grazia, e capace di vedere con i Suoi occhi gli altri, la realtà, l’umanità, il mondo. Il modo di amare di Dio diventa così il nostro modo di amare.

Da tutto questo fu attratta Edith, che nel luglio 1933 entra nel Carmelo di Colonia. Prende il nome di Teresa Benedetta della Croce. Ogni venerdì scrive alla madre, senza ricevere risposta, se non indirettamente, attraverso le sorelle. Il 14 settembre 1936, festa dell’Esaltazione della Santa Croce - l’Espiazione cristiana - proprio nel giorno in cui le carmelitane rinnovano i loro voti, la madre di Edith muore. È questa una delle tante “coincidenze” - che forse non sono tali - che Edith sperimenta nella sua vita. Come quella di essere nata nel giorno che per il calendario ebraico è la festa dell’Espiazione, che ricorda quando il sacerdote nel tempio offriva il sacrificio per il popolo.

Nell’aprile del 1938 (47 anni) Edith emette la sua Professione perpetua. Qualche giorno dopo, muore a Friburgo il suo maestro, Edmund Husserl. Le ultime parole del filosofo sono di abbandono in Dio, in una pace profonda che egli, proprio sul letto di morte, riesce finalmente a trovare in Lui.

In quell’anno si accentuano le leggi razziali e l’odio verso gli Ebrei. Nel novembre 1938, nella “notte dei cristalli”, vengono date alle fiamme le sinagoghe, profanati i cimiteri ebraici, usate violenze di ogni tipo agli ebrei, rotte le vetrine dei loro negozi. Temendo il peggio anche per Edith, i suoi Superiori decidono di trasferirla presso un altro monastero, a Echt, in Olanda, paese allora ancora neutrale. Poco dopo la raggiunge anche la sorella Rosa, convertitasi al cattolicesimo. Ma Edith sente sempre più fortemente che verrà chiamata ad offrire a Dio la sua vita per il suo popolo, unendo il suo sacrificio al Sacrificio eterno di Cristo.

(continua)

Sabato, Dicembre 19, 2020 Edith Stein

Appena trascorse le feste del Natale, la notte del 30 dicembre 1938 (47 anni), Edith, accompagnata da un medico amico, fugge dal Convento delle Carmelitane di Colonia per raggiungere quello di Echt in Olanda: dopo aver sostato in preghiera in un santuario dedicato alla Vergine della Pace, proseguono il viaggio e varcano la frontiera di notte e con la nebbia raggiungendo la nuova destinazione la sera del 31 dicembre: «Quella sera - dicono le suore – il volto di suor Benedetta aveva un’espressione grave e dolorosa, ma la sua delicatezza e il suo gran cuore ci hanno conquistate subito». Sentiamo direttamente dalle lettere di Suor Benedetta della Croce, come visse quei momenti: «Sono arrivata qui la sera di san Silvestro. Per tutte noi, al Carmelo, la decisione di separarci è stata penosa, ma avevo la ferma convinzione che fosse la volontà di Dio e che si sarebbe evitato qualcosa di peggio. Qui mi hanno accolta con il più tenero affetto. Le buone madri e sorelle hanno compiuto tutti i passi necessari per farmi avere il più presto possibile il permesso di immigrazione e, con le loro preghiere, mi hanno spianato la strada». Suor Benedetta si mette a studiare l’olandese, aggiungendo così una settima lingua a quelle che già conosceva. Non impiegò molto ad acclimatarsi, né a conquistarsi la simpatia delle suore. Così scrive: «Da quando sono qui, il mio sentimento dominante è la riconoscenza: rendo grazie per essere qui e per ciò che è questa casa. Tuttavia ho un pensiero persistente: quaggiù non ci sono dimore permanenti. Non desidero nulla, se non che si compia in me e attraverso di me la volontà di Dio: quanto tempo mi lascerà qui e che cosa succederà in seguito? Tutto questo dipende da Lui e perciò non devo occuparmi affatto. È però importante pregare molto, per restare fedeli in ogni circostanza. E, prima di tutto, per le numerose persone che si trovano a subire una situazione ben peggiore della mia e che, tuttavia, non sono radicate nell’eternità. Sono anche riconoscente di tutto cuore verso coloro che mi offrono il loro aiuto».

In tempi brevi gli eventi confermano gli oscuri presagi di Edith: il 30 gennaio 1939, Hitler decreta e annuncia l’annientamento della “razza ebraica”, provocando un esodo massiccio degli ebrei dell’Europa centrale verso la Francia e gli Stati Uniti. I segni premonitori del conflitto si fanno più netti. Sei mesi prima dello scatenarsi del conflitto, Teresa Benedetta spera ancora nella Misericordia divina, alla quale si offre come vittima; così scrive nel suo testamento: «Fin da adesso accetto la morte che Dio mi ha destinato, con gioia e con una totale sottomissione alla sua santissima volontà. Prego il Signore di voler accettare la mia vita e la mia morte per la sua gloria e glorificazione […], per il popolo ebreo affinché il Signore sia accolto dai suoi e venga il suo regno […] Per la salvezza della Germania e per la pace nel mondo; infine, per i miei parenti, vivi e morti, e per tutti coloro che Dio mi ha affidato: perché nessuno si perda». Nel maggio 1940, l’Olanda viene occupata dai tedeschi che, subito, mettono in atto una legislazione antisemita: gli ebrei, esclusi dalla funzione pubblica e con domicilio coatto, vengono tenuti in disparte dal resto della popolazione e obbligati a portare la stella gialla, mentre la Gestapo assume il controllo delle amministrazioni. Suor Benedetta prega e si offre, in un abbandono totale, alla contemplazione:

“Benedici, Signore, lo spirito affranto di coloro che soffrono,
la pesante solitudine degli uomini, di colui che non conosce riposo,
la sofferenza che non si confida a nessuno.
E benedici il corteo di quelle persone nella notte
che non spaventa lo spettro di percorsi sconosciuti.
Benedici la miseria degli uomini che muoiono in quest’ora: concedi loro, mio Dio, una buona fine.
Benedici, Signore, i cuori amareggiati.
Prima di tutto accorda ai malati il sollievo,
insegna l’oblio a coloro che hai privato del loro bene più caro:
non abbandonare, sulla terra intera, nessuno al suo sgomento.
Benedici, proteggi, Signore, coloro che sono nella gioia.
Finora non mi hai mai liberata dalla tristezza e, a volte, mi pesa molto;
ma mi dai la tua forza e la posso sopportare” (Dagli Scritti minori)

(Continua)

Giovedì, Dicembre 24, 2020 Edith Stein

I giorni del Natale

Il mistero del Natale

Santa Teresa Benedetta della Croce ocd (Edith Stein)

Quando i giorni diventano via via più corti, quando, nel corso di un inverno normale cadono i primi fiocchi di neve, timidi e sommessi si fanno strada i primi pensieri del Natale. Questa semplice parola emana un fascino misterioso, cui ben difficilmente un cuore può sottrarsi.

Ma per il cristiano - e in particolare per il cristiano cattolico - Natale è anche qualcos’altro. La stella lo guida alla mangiatoia col Bambino Gesù, che porta la pace in terra. L’arte cristiana ce lo pone davanti agli occhi in innumerevoli e delicate immagini, mentre antiche melodie, da cui risuona tutto l’incantesimo dell’infanzia, lo cantano.

Nel cuore di colui che vive con la Chiesa, le campane del "Rorate" (1) e i canti dell’Avvento risvegliano una santa e ardente nostalgia, e a chi si disseta alla fonte inesauribile della sacra liturgia il grande profeta dell’incarnazione ripete, giorno dopo giorno, le sue grandiose esortazioni e promesse: "Stillate, cieli, dall’alto, e le nubi piovano il Giusto! Il Signore è vicino! Adoriamolo! Vieni, Signore, e non tardare! Esulta, Gerusalemme, sfavilla di gioia, perché viene a te il tuo Salvatore!".

Dal 17 al 24 dicembre le grandi antifone gridano con un desiderio e ardore crescente il loro "Vieni a salvarci". Sì, quando la sera gli alberi di Natale luccicano e ci si scambiano i doni, una nostalgia inappagata continua a tormentarci e a spingerci verso un’altra luce splendente, fintanto che le campane della Messa di mezzanotte suonano e il miracolo della Notte Santa si rinnova su altari inondati di luci e di fiori :"E il Verbo si fece carne". Allora è il momento in cui la nostra speranza si sente beatamente appagata.

Seguire il Figlio incarnato di Dio

Ognuno di noi ha già sperimentato una simile felicità del Natale. Ma il cielo e la terra non sono ancora divenuti una cosa sola. La stella di Betlemme è una stella che continua a brillare anche oggi in una notte oscura. Già all’indomani del Natale la Chiesa depone i paramenti bianchi della festa e indossa il colore del sangue: Stefano, il protomartire, che seguì per primo il Signore nella morte, e i bambini innocenti, i lattanti di Betlemme e della Giudea, che furono ferocemente massacrati dalle rozze mani dei carnefici.

"Rallegriamoci tutti nel Signore, perché è nato nel mondo il Salvatore! Oggi la vera pace è discesa dal Cielo." [Notre Dame - Paris]

Che significa questo? Dov’è ora il giubilo delle schiere celesti, dov’è la beatitudine silente della notte santa? Dov’è la pace in terra? "Pace in terra agli uomini di buona volontà". Ma non tutti sono di buona volontà. Per questo il Figlio dell’eterno Padre dovette scendere dalla gloria del cielo, perché il mistero dell’iniquità aveva avvolto la terra.

Le tenebre ricoprivano la terra, ed Egli venne come la luce che illumina le tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolto. A quanti lo accolsero Egli portò la luce e la pace; la pace col Padre celeste, la pace con quanti come essi sono figli della luce e figli del Padre celeste, e la pace interiore e profonda del cuore; ma non la pace con i figli delle tenebre.

Ad essi il Principe della pace non porta la pace, ma la spada. Per essi Egli è la pietra d’inciampo, contro cui urtano e si schiantano. Questa è una verità grave e seria, che l’incanto del Bambino nella mangiatoia non deve velare ai nostri occhi. Il mistero dell’incarnazione e il mistero del male sono strettamente uniti. Alla luce, che è discesa dal cielo, si oppone tanto più cupa e inquietante la notte del peccato. Il Bambino protende nella mangiatoia le piccole mani, e il suo sorriso sembra già dire quanto più tardi, divenuto adulto, le sue labbra diranno: "Venite a me voi tutti che siete stanchi e affaticati".

Alcuni seguirono il suo invito. Così i poveri pastori sparsi per la campagna attorno a Betlemme che, visto lo splendore del cielo e udita la voce dell’angelo che annunciava loro la buona novella, risposero pieni di fiducia : "Andiamo a Betlemme" e si misero in cammino; così i re che, partendo dal lontano Oriente, seguirono con la stessa semplice fede la stella meravigliosa. Su di loro le mani del Bambino riversarono la rugiada della grazia, ed essi "provarono una grandissima gioia".

Queste mani danno e esigono nel medesimo tempo; voi sapienti deponete la vostra sapienza e divenite semplici come i bambini; voi re donate le vostre corone e i vostri tesori e inchinatevi umilmente davanti al Re dei re; prendete senza indugio su di voi le fatiche, le sofferenze e le pene che il suo servizio richiede. Voi bambini, che non potete ancora dare alcunché da parte vostra: a voi le mani del Bambino nella mangiatoia prendono la tenera vita prima ancora che sia propriamente cominciata; il modo migliore di impiegarla è quello di essere sacrificata per il Signore della vita.

"Seguitemi", così dicono le mani del Bambino, come più tardi diranno le labbra dell’uomo adulto. Così dissero esse al giovane amato dal Signore e che ora fa anche parte della schiera disposta attorno alla mangiatoia. E san Giovanni, il giovane dal cuore puro e semplice, lo seguì senza domandare: Dove? A che scopo? Abbandonò la barca del padre e andò dietro al Signore su tutte le sue strade, fino al Golgota.

"Seguimi", questo invito percepì anche il giovane Stefano. Egli seguì il Signore nella lotta contro le potenze delle tenebre, contro l’accecamento della testarda mancanza di fede; gli rese testimonianza con le sue parole e col suo sangue; lo seguì anche nel suo spirito, nello spirito dell’amore, che combatte il peccato, ma ama il peccatore e intercede per l’assassino davanti a Dio anche in punto di morte.

Di fronte ad essi sta la notte dell’indurimento e dell’accecamento incomprensibile: gli scribi, che sono in grado di dare informazioni sul tempo e sul luogo in cui il Salvatore del mondo deve nascere, ma che non deducono alcun "Andiamo a Betlemme!"; il re Erode, che vuole uccidere il Signore della vita. Di fronte al Bambino nella mangiatoia gli spiriti si dividono. Egli è il Re dei re e il Signore della Vita e della morte, pronuncia il suo "Seguimi", e chi non è per lui è contro di lui. Egli lo pronuncia anche per noi e ci pone di fronte alla decisione di scegliere fra luce e tenebre.

Il corpo mistico di Cristo

Dove il Bambino divino intenda condurci sulla terra è cosa che non sappiamo e a proposito della quale non dobbiamo fare domande prima del tempo. Una cosa sola sappiamo, e cioè che a quanti amano il Signore tutte le cose ridondano in bene. E inoltre che le vie, per le quali il Salvatore conduce, vanno al di là di questa terra.

O scambio mirabile! Dio è diventato un figlio degli uomini, affinché gli uomini potessero diventare figli di Dio. Uno di noi aveva lacerato il legame della figliolanza divina, uno di noi doveva di nuovo riannodarlo e pagare per il peccato. Ma nessun discendente di questa progenie antica, malata e imbastardita, era in grado di farlo. Su di essa andava innestato un ramoscello nuovo, sano e nobile. Egli è divenuto uno di noi, anzi di più ancora, una cosa sola con noi.

Questa è infatti la cosa meravigliosa del genere umano, il fatto che siamo tutti una cosa sola. Se le cose stessero diversamente, la caduta dell’uno non si sarebbe tirata dietro la caduta di tutti gli altri. Egli è il nostro

capo, noi le sue membra. Se mettiamo le nostre mani nelle mani del Bambino divino e rispondiamo con un "sì" al suo "Seguimi", allora siamo suoi, è libera la via perché la sua vita divina possa riversarsi in noi.

Non è ancora la contemplazione beata di Dio nella luce della gloria; è ancora l’oscurità della fede, però la nostra vita non è più di questo mondo ed è già un’esistenza nel regno di Dio. Tale regno sopravvenne in maniera diversa da come ce lo si era immaginato in base ai salmi e ai profeti. I romani rimasero i padroni del paese, e i sommi sacerdoti e gli scribi continuarono a tenere il popolo povero sotto il loro giogo. Chiunque apparteneva al Signore portava invisibilmente il regno di Dio in sé. Egli non si vide alleggerito dei pesi dell’esistenza terrena, anzi ne vide aggiungere degli altri; ma dentro era sorretto da una forza alata, che rendeva dolce il giogo e leggero il peso. La vita divina, che viene accesa nell’anima, è la luce che è venuta nelle tenebre, il miracolo della Notte Santa.

Essere una cosa sola in Dio

Essere una cosa sola con Dio: questa è la prima cosa. Ma una seconda ne segue immediatamente. Se nel corpo mistico Cristo è il capo e noi le membra, allora noi siamo membra gli uni degli altri, e tutti insieme siamo una cosa sola in Dio, una vita divina. Se Dio è in noi e se egli è amore, allora non possiamo che amare i fratelli. Per questo il nostro amore del prossimo è la misura del nostro amore di Dio.

Ma si tratta di un amore diverso dall’amore naturale per gli uomini. L’amore naturale si dirige verso questo o verso quello, verso chi è a noi legato da vincoli di sangue, da affinità di carattere o da interessi comuni. Gli altri sono "estranei", di essi "non ci importa alcunché". Per il cristiano non esiste alcun "estraneo". Cristo è venuto per i peccatori e non per i giusti. E se il suo amore vive in noi, allora agiamo come lui e andiamo dietro alla pecorella smarrita.

L’amore naturale tende ad avere per sé la persona amata e a possederla nella maniera più indivisa possibile. Cristo è venuto per riportare al Padre l’umanità perduta; e chi ama col suo amore vuole gli uomini per Dio e non per sé. Questa è naturalmente nello stesso tempo la via più sicura per possederli eternamente; quando infatti abbiamo posto in salvo una persona in Dio, siamo con lei in Dio una cosa sola, mentre il desiderio di conquistarla conduce spesso – anzi prima o poi sempre – alla sua perdita. Ciò vale per l’altrui anima come per la propria e per ogni bene esteriore: chi si dedica alle cose esteriori per conquistarle e conservarle, le perde. Chi ne fa dono a Dio, le guadagna.

"Sia fatta la Tua volontà!"

Tocchiamo così un terzo segno della figliolanza divina. Essere una cosa sola con Dio, il primo. Il fatto che tutti sono una cosa sola in Dio, il secondo. Il terzo :"Da questo riconoscerò che mi amate, se osserverete i miei comandamenti". Essere figlio di Dio significa camminare dando la mano a Dio, fare la volontà di Dio e non la propria, riportare nelle sue mani ogni preoccupazione e speranza, non affannarsi più per sé e per il proprio futuro. Questa è la base della libertà e della gioia del figlio di Dio.

Tutti conoscono la parabola degli uccelli del cielo e dei gigli del campo. Ma quando incontrano una persona che non possiede alcun bene, non ha alcuna pensione e alcuna assicurazione e tuttavia va incontro serena al suo futuro, scuotono il capo come se si trovassero di fronte a un tipo strano. La fiducia in Dio rimane incrollabile solo se essa include la disponibilità ad accogliere qualunque cosa dalla sua mano. Dio solo infatti sa quel che è bene per noi. E se un giorno per noi dovessero esser meglio la miseria, la privazione, anziché un reddito sicuro, oppure l’insuccesso e l’umiliazione al posto dell’onore e del prestigio, dovremmo tenerci pronti anche a questo. Se lo facciamo, allora possiamo vivere il presente senza lasciarci turbare dal futuro.

Il "sia fatta la tua volontà", in tutta la sua estensione, deve essere il criterio della vita cristiana. Esso deve scandire la giornata dal mattino alla sera, il corso dell’anno e tutta la vita. E deve quindi essere anche l’unica preoccupazione del cristiano. Tutte le altre il Signore le prende su di sé.

Chi appartiene a Cristo deve vivere tutta la sua vita. Deve maturare fino all’età adulta di Cristo, imboccare un giorno la via della croce, dirigersi al Getsemani e al Golgota. E tutte le sofferenze che provengono dall’esterno sono un nulla a paragone della notte oscura dell’anima, allorché la luce divina non brilla più e la voce del Signore tace. Perché fa così? Siamo qui di fronte ai suoi misteri, misteri che non possiamo penetrare fino in fondo. Un pò però li possiamo già perscrutare.

Dio è divenuto uomo per farci di nuovo partecipare alla sua vita. Partecipazione che era al principio e che è l’ultimo fine. Ma nell’intervallo c’è ancora qualcos’altro.. Cristo è Dio e uomo, e chi vuol partecipare alla sua vita, deve prender parte alla sua vita divina e umana. La natura umana da lui assunta gi diede la possibilità di soffrire e morire. La natura divina, da lui posseduta dall’eternità, conferì alla sua passione e morte un valore infinito e la capacità di compiere la redenzione.

La passione e la morte di Cristo continuano nel suo corpo mistico e in ognuna delle sue membra. Ogni uomo deve soffrire e morire. Ma se egli è un membro vivo del corpo di Cristo, la sua sofferenza e la sua morte diventano, grazie alla divinità del capo, redentrici.

Questo è il motivo oggettivo, per cui tutti i santi hanno aspirato a soffrire. Non si tratta di un desiderio malsano. Gli occhi della mente naturale lo vedono come una perversione. Ma alla luce del mistero della redenzione esso appare come estremamente ragionevole. E così colui che è unito a Cristo persevera incrollabile anche nella notte oscura della lontananza soggettiva da Dio; forse la provvidenza divina gli impone questo tormento per liberare una persona oggettivamente incatenata. Diciamo pertanto: "Sia fatta la tua volontà!" anche e proprio per questo, nella notte più oscura.

Mezzi di salvezza

Ma possiamo ancora pronunciare questo "sia fatta la tua volontà" , quando non sappiamo più con certezza che cosa la volontà di Dio esige da noi? Esistono mezzi così potenti che uno sbandamento, per quanto in linea di principio possibile, diventa in realtà infinitamente inverosimile. Dio è infatti venuto per redimerci, per unirci a sé, per rendere la nostra volontà conforme alla sua. Conosce la nostra natura. Ne tiene conto e ci ha quindi fatto dono di tutto ciò che può aiutarci a raggiungere il traguardo.

Il Bambino divino è diventato il Maestro e ci ha detto che cosa dobbiamo fare. Per permeare tutta una vita umana di vita divina non basta inginocchiarsi una volta all’anno davanti alla mangiatoia e lasciarsi prendere dall’incanto della notte santa. A questo scopo bisogna stare quotidianamente in contatto con Dio per tutta la vita, ascoltare le parole che egli ha pronunciato e che ci sono state tramandate, e metterle in pratica. Prima di tutto bisogna pregare, così come il Salvatore ci ha insegnato a fare e ha continuamente e pressantemente raccomandato. "Chiedete e vi sarà dato". E’ una sicura promessa di esaudimento. E chi recita quotidianamente di cuore il suo "Signore, sia fatta la tua volontà", può confidare di non tradire la volontà divina anche quando non ne ha più alcuna certezza soggettiva.

Inoltre: Cristo non ci ha lasciati orfani. Ha inviato il suo Spirito, che insegna a tutti noi la verità. Ha fondato la Chiesa, che è guidata dal suo Spirito, e ha istituito in essa i suoi rappresentanti, dalla cui bocca il suo Spirito ci parla in parole umane. In essa egli ha unito i fedeli in una comunità e vuole che ognuno sia responsabile di ogni altro. Pertanto non siamo soli, e dove viene meno la fiducia nel proprio giudizio e anche nella propria preghiera siamo soccorsi dalla forza dell’obbedienza e della forza dell’intercessione.

"E il Verbo si fece carne". Ciò è divenuto verità nella stalla di Betlemme. Ma si è adempiuto anche in altra forma. "Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna". Il Salvatore, ben sapendo che siamo uomini quotidianamente alle prese con le nostre debolezze, viene in aiuto della nostra umanità in maniera veramente divina. Come il corpo terreno ha bisogno del pane quotidiano, così anche la vita divina aspira in noi ad essere continuamente alimentata. "Questo è il pane vivo, che è disceso dal cielo". Per chi ne fa veramente il suo pane quotidiano, in lui si compie quotidianamente il mistero del Natale, l’incarnazione del Verbo. E questa è indubbiamente la via più sicura per conservare ininterrottamente l’unione con Dio e

radicarsi ogni giorno sempre più saldamente e profondamente nel corpo mistico di Cristo.

So bene che ciò apparirà a molti un’esigenza troppo radicale. In pratica essa comporta, per la maggior parte di coloro che cominciano a soddisfarla, un rivoluzionamento di tutta la loro vita, interiore ed esteriore. Ma appunto così dobbiamo fare! Nella nostra vita dobbiamo far spazio al Salvatore eucaristico, affinché possa trasformare la nostra vita nella sua.

E' questa una richiesta esagerata? Abbiamo tempo per tante cose inutili: per leggere ogni genere di libri, riviste e quotidiani futili, per bighellonare da un caffé all’altro e passare quarti d’ora e mezzore a chiacchierare per strada, tutte ‘distrazioni’ in cui sprechiamo e disperdiamo tempo e energie. Non ci è proprio possibile riservare ogni mattina un’ora, in cui non ci distraiamo, ma ci raccogliamo, in cui non ci logoriamo, ma accumuliamo energia per poi affrontare col Suo aiuto i nostri compiti quotidiani?

Ma naturalmente ci vuole più di una semplice ora del genere. Essa deve animare tutte le altre, sì da rendersi impossibile "lasciarci andare", fosse anche solo momentaneamente. Così succede nei rapporti quotidiani col Salvatore. Diventiamo sempre più sensibili nel discernere ciò che gli piace e gli dispiace. Se prima eravamo tutto sommato molto contenti di noi, ora le cose cambiano. Troveremo che molte cose sono cattive e nei limiti del possibile le cambieremo.

E scopriremo alcune cose che non possiamo ritenere belle e buone, e che pur risulta tanto difficile cambiare. Allora diventiamo a poco a poco molto piccoli e umili, pazienti e indulgenti verso le pagliuzze presenti negli occhi altrui, perché abbiamo da fare con la trave presente nei nostri; e infine, impariamo anche a sopportarci nella luce della presenza di Dio e ad affidarci alla sua misericordia, che può venire a capo di tutto ciò che si fa beffe delle nostre forze.

Lungo è il cammino per passare dall’autocompiacimento del "buon cattolico", che "compie i suoi doveri", ma per il resto fa come gli piace, ad una vita che si lascia guidare per mano da Dio ed è caratterizzata dalla semplicità del bambino e dall’umiltà del pubblicano. Chi però l’ha imboccata una volta, non la rifà più a ritroso.

La vita filiale in Dio significa perciò divenire piccoli e nel medesimo tempo divenire grandi. Vivere l'Eucaristia significa uscire spontaneamente dalla meschinità della propria vita e addentrarsi negli ampi spazi della vita di Cristo. Chi fa visita al Signore nella sua casa, non si occuperà più solo e sempre di sé e delle proprie faccende, ma comincerà ad interessarsi delle faccende del Signore.

La partecipazione al sacrificio quotidiano ci immerge, senza che ce ne accorgiamo, nella vita liturgica. Le preghiere e i riti dell’altare ripropongono continuamente davanti alla nostra anima, nel corso dell’anno liturgico, la storia della salvezza e ce ne fanno penetrare sempre più profondamente il senso. E l’azione sacrificale ci impregna instancabilmente del mistero centrale della nostra fede, cardine della storia del mondo: del mistero dell’incarnazione e della redenzione. Chi può assistere con spirito e cuore aperto al sacrificio eucaristico senza entrare a sua volta nel suo dinamismo, senza essere preso dal desiderio di inserire se stesso e la propria piccola vita personale nella grande opera del Redentore?

I misteri del cristianesimo sono un tutto indivisibile. Chi ne approfondisce uno, finisce per toccare tutti gli altri. Così la vita che si diparte da Betlemme procede inarrestabilmente verso il Golgota, va dalla mangiatoia alla Croce. Quando la santissima Vergine presentò il Bambino al tempio, le fu predetto che la sua anima sarebbe stata trafitta da una spada, che quel bambino era posto per la caduta e la risurrezione di molti e come segno di contraddizione.

Nella notte del peccato brilla la stella di Betlemme. Sullo splendore luminoso che irradia dalla mangiatoia cade l’ombra della croce. La luce si spegne nell’oscurità del venerdì santo, ma torna a brillare più luminosa, sole di misericordia, la mattina della risurrezione. Il Figlio incarnato di Dio pervenne attraverso la croce e la passione alla gloria della risurrezione. Ognuno di noi, tutta l’umanità. perverrà col Figlio dell’uomo, attraverso

la sofferenza e la morte, alla medesima gloria.

(conferenza che Edith Stein tenne nel 1931 per un gruppo dell'Associazione cattolica di Ludwigschafen)

Sabato, Gennaio 02, 2021 Edith Stein

Nell’estate del 1940, dopo svariate peripezie, anche la sorella Rosa raggiunge Edith a Echt e per qualche mese possono condurre una vita regolare, non turbata dagli avvenimenti esterni: tuttavia la loro situazione rimane precaria. Suor Teresa Benedetta si rimette completamente nelle mani di Dio, come scrive alla sua priora: “ … ormai non vorrei fare più nulla per ciò che riguarda la mia stabilità […] mi va bene qualsiasi cosa. Non si può acquisire una “scienza della croce” se non si arriva a sondare a fondo il mistero della croce. Ne sono stata convinta fin dal primo istante e ho detto dal profondo del mio cuore: Ave crux, spes unica!”.

Nel 1941la priora di Echt chiede a suor Teresa Benedetta di intraprendere la redazione di un lavoro Scientia Crucis sull’opera di San Giovanni della Croce, in vista del 4° centenario della nascita di questi (1542): in quest’opera, nella quale si rileggono e si commentano i principali testi del Santo, Edith spiega come si possa giungere alla conoscenza di Dio attraverso l’unione mistica con Lui. È un’unione che si ottiene partecipando innanzitutto alla Croce di Cristo che comporta, come primo passaggio, la morte di tutto ciò che dentro di noi si oppone a Dio: Gesù «apre le  chiuse della misericordia del Padre su tutti coloro che hanno il coraggio di abbracciare la croce e il Crocifisso. Su di loro riversa la sua vita e la sua luce divina ma, dal momento che devono annientare tutto ciò che fa da ostacolo, potranno in un primo tempo dare l’idea di causare buio e morte. È la notte oscura della contemplazione, la morte in croce dell’”uomo vecchio”. Più la sollecitazione dell’amore si fa potente, più l’anima vi si abbandona senza riserve e più buia sarà la notte e dolorosi i tormenti di morte. Il crollo totale della natura umana lascia uno spazio sempre più grande alla luce soprannaturale e alla vita divina. Questa si impadronirà delle forze naturali, per spiritualizzarle e divinizzarle. Così si compie in qualche modo una nuova incarnazione di Cristo nel cristiano e una vera e propria risurrezione a partire dalla morte in croce. L’uomo nuovo porta nel suo corpo le stigmate di Cristo, che sono una specie di ricordo della miseria del peccato da cui è sorto alla vita divina e del prezzo che si è dovuto pagare per il suo riscatto».

All’inizio dell’anno 1942è chiaro che i tedeschi hanno in programma per l’Olanda lo sterminio sistematico degli ebrei e Suor Teresa Benedetta si trova nella stessa situazione di Colonia: per evitare pericoli alla sua comunità di Echt pensa ancora di esiliarsi e fuggire in Svizzera oppure in Spagna, ma l’impresa si rivela tragicamente impraticabile. Intanto la Gestapo punta l’attenzione sulle due sorelle che vengono convocate nell’ufficio di Maastricht mostrandosi violenti poiché sulla carta di identità non è segnata la grande J che denuncia la loro origine ebrea.

Il 7 luglio 1942 l’episcopato cattolico dei Paesi Bassi in accordo con i Sinodo delle Chiesa riformata, invia a Seyss-Inquart, commissario del Reich, un telegramma di protesta contro le misure di cui son vittime gli ebrei, ecco il documento: «I sottoscritti …, profondamente toccati dalle misure eccezionali prese contro gli ebrei e tendenti ad escluderli dalla vita sociale, hanno appreso con orrore la notizia delle deportazioni di massa di intere famiglie ebree: uomini, donne e bambini inviati nei territori dell’Est controllati del Reich. Il dolore che viene così a olpire decine di migliaia di persone, la certezza che tali misure contrastano con il profondo senso morale del popolo olandese e, soprattutto, si oppongono ai comandamenti di Dio che riguardano la giustizia e la misericordia, obbligano i capi delle comunità cristiane a rivolgere un appello pressante, con lo scopo di prevenire, se possibile, simili misure. Per i cristiani di origine ebrea la nostra richiesta si fa ancora più insistente, dal momento che le disposizioni sopraccitate mirano ad escluderli dalla vita stessa della Chiesa». Il commissario aggiunto Smith risponde concedendo poco e rimanendo evasivo sulla questione di fondo, quindi i vescovi e la maggior parte dei ministri riformati leggono pubblicamente in Chiesa domenica 26 luglio il messaggio inviato a Seyss-Inquart. La reazione è immediata, ecco il documento delle SS:

“OGGETTO: EVACUAZIONE DEGLI EBREI CRISTIANI BATTEZZATI […] IL COMMISSARIO DEL REICH HA DATO LE SEGUENTI DISPOSIZIONI: 1) ACCERTARSI AL PIÙ PRESTO IN QUALI CHIESE EVANGELICHE È STATA FATTA LA DENUNCIA DAL PULPITO, CON LETTURA DEL TELEGRAMMA DEL COMMISSARIO DEL REICH. 2) VISTO CHE I VESCOVI CATTOLICI SI SONO IMMISCHIATI NELLA FACCENDA - MALGRADO NON FOSSERO TOCCATI PERSONALMENTE - TUTTI GLI EBREI CATTOLICI VERRANNO DEPORTATI ENTRO QUESTA SETTIMANA. NON SI TENGA CONTO DI NESSUN INTERVENTO IN LORO FAVORE. IL COMMISSARIO GENERALE SCHMIDT DARÀ RISPOSTA PUBBLICA AI VESCOVI IL 2.8.1942, NEL CORSO DI UNA MANIFESTAZIONE DI PARTITO NEL LIMBURGO”.                                  

Sabato, Gennaio 09, 2021 Edith Stein

2 agosto 1942. Il commissario del Reich fa arrestare di tutti i religiosi e le religiose non ariane presenti nei conventi, in tutto 300 religiosi. Quel giorno, suor Benedetta continua a lavorare al suo libro Scientia Crucis, così scrive di quel pe- riodo: «Quando, dopo la celebrazione del mattino all’altare di Dio, intraprendo il lavoro della giornata, tutto diventa tranquillo in me e la mia anima si libera di tutto ciò che può turbarla o prostrarla, riempiendosi di una santa gioia, di coraggio e di brio. Essa è diventata grande e libera perché, dopo essere uscita da se stessa, è entrata nella vita divi- na». Alle 17,00 la Gestapo arriva anche al convento di Echt e chiede delle sorelle Stein. Così racconta la Madre priora: «feci uscire suor Teresa dal coro, [...] capii che la cosa era ben altrimenti grave di quello che avevo pensato, e fui pre- sa da paura. Uno degli ufficiali SS ingiunse a suor Teresa di uscire di clausura entro cinque minuti. La udii rispondere: “Non lo possiamo, le nostre regole di clausura sono molto severe”. “Distruggete tutto questo” - gridò il nazista (intendeva le grate) - “e uscite di qui”. “Dovrete costringermi con la forza” - replicò con calma. Al che, l’uomo coman- dò: “Chiamatemi la superiora”. Mi disse: “Se osasse rifiutarsi di lasciar uscire suor Stein, può immaginare le conse- guenze che questo avrebbe sulla sua casa”. In serata il commissario assistente del Reich Schmidt in un discorso uffi- ciale proclamò che si trattava di una misura di rappresaglia in risposta alla protesta dei vescovi olandesi: le autorità tedesche si vedevano costrette a “perseguitare gli ebrei cattolici come i loro peggiori nemici” e ad “assicurare al più presto la loro deportazione verso l’est”. Sappiamo da alcuni amici che riuscirono a incontrare furtivamente Edith nel campo, che gli arrestati furono condotti ad Amersfoort dove ella incontrò parenti e conoscenti ma dove i prigionieri avevano subito ogni specie di vessazioni, poi erano stati spinti a colpi di calcio di fucile dalle SS nei dormitori.

3 agosto 1942. Il mattino un treno parte per Westerbork (al nord del paese): da quel campo le sorelle Stein riescono ad inviare messaggi a Echt e a rassicurare le consorelle dicendo: «Qualunque cosa accada sono pronta a tutto. Il bambino Ge- sù è anche qui in mezzo a noi». Un commerciante ebreo di Colonia sopravvissuto e che frequentò suor Teresa dice: «Si distingueva per il suo comportamento tranquillo. Le grida, i lamenti, lo stato di sovraeccitazione angosciosa dei nuovi arri- vati era indescrivibile! Suor Teresa si recava tra le donne calmando e curando: molte madri sembravano cadute in una spe- cie di prostrazione, vicino alla follia: se ne stavano a gemere come inebetite, abbandonando i loro figli. Suor Teresa si occu- pava dei bambini lavandoli, pettinandoli e procurando loro cibo e cure». La madre di un sacerdote domenicano testimo- nierà: «La grande differenza tra Edith Stein e le altre internate stava nel suo silenzio. La mia impressione è che fosse estre- mamente afflitta ma no angosciata. Dava l’impressione di dover portare una tale massa di sofferenze che, anche quando le capitava di sorridere, era ancora più rattristante. Mentre sto scrivendo questo, mi viene il pensiero che prevedesse ciò che sarebbe successo, a lei e agli altri. Soprattutto era l’unica ad essere scappata dalla Germania e perciò ne sapeva più delle altre. Ma, ancora una volta, non è che una mia impressione: pensava alla sofferenza che prevedeva, ma non alla pro- pria, perché era troppo in pace per questo: solo alla sofferenza che riguardava gli altri. Tutto il suo modo di fare risvegliava in me un pensiero e me la vedo ancora davanti, seduta nella baracca: una Pietà senza Cristo».

6 agosto 1942. Ultima lettera: «Westerbork, Baracca 36, 6.8.1942 - Cara madre, domani mattina parte il primo con- voglio (Slesia o Cecoslovacchia?). Le cose più utili da procurarci sarebbero: [...] A me piacerebbe avere anche il prossimo volume del breviario (finora ho potuto pregare meravigliosamente). Le nostre carte di identità, i certifi- cati di origine e le tessere del pane. Mille grazie, saluti a tutte. Sua grata figlia T.»

7 agosto 1942. Efith e Rosa salgono su quel treno e ad alla fermata di Schifferstadt, una ex allieva delle domenicane di Spira, si sente chiamare da un vagone e intravvede, allo sportello di un vagone piombato, la sagoma della sua ex insegnante che le dice: «Saluti le suore di Spira, dica loro che sono in viaggio verso l’Est ...»

9 agosto 1942. Est è Auschwitz. Al campo, scesi tutti dal treno, dopo una veloce selezione furono trattenuti un pic- colo gruppo di soli uomini robusti abili al lavoro, altri (tra le quali Edith e la sorella Rosa), furono fatte risalire sul treno. Si seppe che coloro che risalivano venivano con il treno portate immediatamente alle camere a gas, dove le due sorelle insieme ad altri religiosi morirono lo stesso giorno. Quando qualche giorno prima, uscirono dal Carmelo di Echt, prendendo la sorella per mano, Edith le disse: «Vieni, andiamocene per il nostro popolo».

1° maggio 1987beatificazione a Colonia; 11 ottobre 1988 dichiarata Santa da Giovanni Paolo II. 10 ottobre 1999 Gio- vanni Paolo II proclama S. Teresa Benedetta della Croce, S. Brigida di Svezia e S. Caterina da Siena compatrone d’Europa.